SUPERSANTOS, il cortometraggio


venerdì 16 maggio 2008

ECOMETROCUBO r4

"Socrate: Certo, l'oggetto unico e perpetuo dell'anima è appunto ciò che non esiste: ciò che fu, e che non è più - ciò che sarà e non è ancora - ciò che è possibile, ciò che è impossibile - ecco ciò che interessa l'anima, ma mai, mai ciò che è!"

(P. Valery, L'anima e la danza)


 

sabato 17 maggio 2008, dalle ore 11.00

CITTÀ DELLA SCIENZA

nell'ambito della mostra-laboratorio


4R
/ Per saperne di più

ECOMETROCUBO

anima/azione di mina di nardo


 

programma:

ore 11.00

PRESENTAZIONE DELL'OPERA

Intervento di Antonella Palmieri

ADA - Associazione Donne Architetto, Napoli

Spazio Einstein [sala interna]


 

ore 11,15

PERFORMANCE DI MONTAGGIO DELL'OPERA INSIEME CON IL PUBBLICO

Piazza della Scienza [piazzale ciminiera antistante il museo]


 

ESPOSIZIONE DELL'OPERA

L'opera resterà a Città della Scienza da sabato 17 maggio a sabato 31 maggio


 


 

<<L'ecometrocubo è la metafora delle parole che Valery attribuisce a Socrate.

Nella realtà esso esiste, ma la sua esistenza è in continuo conflitto con gli infiniti oggetti che lo compongono. E' un oggetto di oggetti, che cercano di ritrovare una loro forma, che un tempo avevano :" ciò che fu e che non è più".

Un tempo, gli infiniti pezzi di legno, dalle forme più disparate, che conformano l'oggetto, erano oggetti unici con una loro forma ben definita : erano alberi. Ridotti in infiniti pezzi, questi cercano una forma, al limite la forma perduta.

In Holzwege, l'ultimo scritto di Heidegger, si ritrova un qualcosa di simile. La parola tedesca è formata con due parole, che significano : albero e sentiero.

Il sentiero, una volta, era alberi che, abbattuti, hanno permesso la nascita del sentiero. Ma questo, ad un certo punto, termina e si ritrovano gli alberi. Ma quelli abbattuti per costituire il sentiero, non ci sono più. Sono chissà dove, ridotti in pezzi, come le infinite parti dell'ecometrocubo. Queste non potranno mai più ridiventare alberi e perciò, si avvicinano, si accostano, si parlano, si compattano mettendo in forma un progetto di "possibile", non essendo loro più permesso l'"impossibile", essere quello che erano.

Il progetto possibile, allora,è qualcosa che è, se si guardano i singoli pezzi; ma è anche qualcosa che ci ricorda ciò che i tanti pezzi non sono più : alberi.

L'oggetto "è", ma non definitivamente, perché i pezzi si modificheranno da soli al sole; mostreranno alla luce la loro essenza interna, la loro resina ; si distorceranno ; si arcueranno; continueranno a vivere in forme che lentamente mutano, ma di nuovo "saranno". Saranno un qualcosa che "mai, mai,mai" sarà definitivamente, ma che muterà con continuità, come muta la natura, della quale un tempo erano parte chiara e definita.

L'ecometrocubo sarà un nuovo elemento di natura, ancora mai visto, ma comunque Natura.>>

Antonio Rossetti

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mercoledì 14 maggio 2008

Giro di Lune tra Terra e Mare

DOPO 10 ANNI LA PRIMA PROIEZIONE A POZZUOLI


Il film di Gaudino fa vibrare tutte le tre corde che, per dirla con Ungaretti, un'opera d'arte dovrebbe toccare. La potenza evocativa di un passato "pesante" ma logoro, rantolante, disperso, quale quello dei Campi Flegrei e di Pozzuoli in particolare, viene resa con una cifra stilistica che rifugge da ogni tentazione didascalica o melanconica, archeologica o pseudo mitologica, anzi. La specificità del linguaggio filmico nella "forma" utilizzata dal regista realizza una riduzione della sequenza scenica a frammenti di fotogrammi che richiamano schizzi o cartoni preparatori per un grande affresco di una storia mai narrata. Si, perché mai narrata con tale incisività la vicenda dello sgombero del rione Terra che ha dato il colpo di grazia all'identità della comunità puteolana. Ma su questo tema torneremo in seguito.

La pellicola emoziona e questo è il suo principale pregio. Ci riconosciamo nelle vicende della famiglia Gioia e condividiamo l'attaccamento alle radici, alla volontà di non strappare il cordone ombelicale con la terra, con quel genius loci che alimenta e permette la vita virtuosa e l'evoluzione legittima della comunità. La narrazione si muove in un continuum spazio temporale sorprendente, rendendo le figure storiche o mitologiche quasi parte della famiglia e inevitabilmente restie all'oblio, mai rassegnate a seguire un destino segnato da ordinanze e dazebau scritti in burocratese contemporaneo, lingua che, a dispetto di altre ben più ricche e poetiche, tarda a morire.

E poi il film comunica. E dicono molto anche le vicende legate alla sua distribuzione. Solo adesso, dopo 10 anni dico 10 anni dalla presentazione a Venezia nel '97 e premi e consensi raccolti in tutto il mondo, Giuseppe Gaudino riesce a presentare il suo film nella sua città. Fatto assolutamente sconcertante ma che ricalca l'oblio indotto e il depauperamento culturale nel quale siamo ridotti a vivere. L'abbandono e la sistematica sperequazione del territorio ha prodotto i "carri armati", il "lotto delle mutande" un sistema abitativo e territoriale legato esclusivamente a scelte urbanistiche opportunistiche e funzionali ad un decisionismo politico scellerato che ha troncato la vita della comunità e drasticamente compromesso l'enorme patrimonio storico, culturale, ambientale dei Campi Flegrei. Che fine ha fatto la bellezza?

Ma, attenzione, Gaudino con enorme sforzo creativo ricuce i pezzi di una memoria che affiora a tratti, che riesce a farsi sentire ancora e ci urla a bassa voce che è possibile, doveroso, evitare che la storia si ripeta. Abbiamo perso il rione Terra e i pescatori, ci hanno tolto le fabbriche e gli operai, per 3000 vani fatiscenti di via Napoli si è costruito un mega quartiere di 33000 vani a Monteruscello, via Napoli non si è messa in sicurezza ma si è triplicato il numeri dei vani occupati da nuovi immigrati che hanno speso 4000, 5000 euro al metro quadro per restare prigionieri di automobili e lamiere senza poter uscire o tornare a casa da maggio ad ottobre e tutti i weekend dell'anno. il mare poi…

È in itinere il progetto curiosamente denominato "Compendio Rione Terra - Porto", redatto dalle S.p.A. Itainvest e Fimoper, che in un'accorata e lucida denuncia, Raffaele Giamminelli definisce "intervento nefasto per i Campi Flegrei, simile a quello tentato nel 1918 dal faccendiere Carlo Enrietti che, mediante una poco pulita convenzione con lo Stato, distruggeva tutto il golfo di Pozzuoli e la mitica costa con imponenti opere portuali. Per fortuna, grazie ad un gruppo di autorevoli "pozzolani", tra i quali lo storico Raimondo Annecchino e il senatore a vita Vincenzo Cosenza, la speculazione fu sventata." Difficile saperne di più, difficile anche sentirne parlare. Si sa poco anche della ventilata riconversione dei suoli rivieraschi della Sofer. È plausibile temere che quello che proporrà la Waterfront Flegreo S.p.A. diventi legge silenziosa e condivisa da lobby e politici di entrambi gli schieramenti, a discapito di quella democrazia partecipata a cui dovrebbero aspirare i nostri amministratori, memori distratti di un'antica rocca pre-romana denominata Dicearchia.

Ricordiamoci che gli imprenditori di oggi non sanno manco chi fosse Adriano Olivetti e che intellettuali, studiosi e dirigenti pubblici poco fanno e niente incidono. Una speranza è stata accesa dalla direzione del Parco dei Campi Flegrei che si è decisamente schierata contro il tentativo di riaprire la ferita mai rimarginata dei Pisani. Cosa può dire il Parco sulle sorti del rione Terra, del molo Caligoliano, delle aree costiere ex industriali? Cosa può fare il Parco per riannodare l'identità di una comunità espropriata?

Il film di Gaudino e di Isabella Sandri, produttrice e co-sceneggiatrice, dovrebbe essere proiettato 24 ore al giorno tutti i giorni in una sala pubblica puteolana. Le loro immagini devono ispirare a tutti noi figure di una giovinezza spirituale ritrovata, di speranza e scossa sismica che ci sbatta fuori dall'ignàvia. Non chiudiamo l'ultima finestra sulla Darsena.


Luciano Marini

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martedì 13 maggio 2008

Racconto di terra – di mare – di vulcani - violenza e bellezza

di Assunta Patrizia Esposito


 

Questo è il mio paese, abitato da tredicimila anime.

Una collina sul mare che non è più una collina, perché ormai coperta quasi del tutto, dal cemento delle case, dal bitume delle strade, e dal rumore assordante di auto che schizzano veloci, in una piazza che non è una piazza.

Monte di Procida, ultimo lembo di terra ad ovest del Golfo di Napoli, la collina che chiude la 'caldera' dei Campi Flegrei, che quassù, da Bellavista si distende come una mappa dei sogni, tra cielo, isole, colline, laghi e mare, in uno scenario che dall'altro appare ancora fiabesco.

Conosco molto bene l'odore del bitume, ho abitato per anni nella nebbiosa Milano, nella 'violenza' del cemento, e del rumore assordante delle auto o di tutto quello che si chiama 'civiltà' occidentale.

La 'violenza' la senti sulla pelle, attraverso il pulviscolo che penetra i pori, poi nel naso e nella bocca con gli odori ed il sapore del bitume, dei gas di scarico delle auto, e dei materiali ferrosi; e la senti negli occhi con le strutture ortogonali di palazzi ad architettura cd. funzionale fino a che gli stessi occhi, colpiti continuamente dalle linee rigide di strade ed edifici si indolenziscono e non registrano più 'i particolari'. E così ti accorgi di essere diventato un automa, la tua mente ha smesso di 'apprendere' i particolari essenziali, 'viaggiando' per 'geometrie ortogonali' proprio come un diagramma cartesiano, pensando di 'essere' perché 'pensa' di essere, ma non lo è in realtà.

Questo è il dramma di una città 'civile' come Milano o come New York.

Ma qui… ad Ovest della 'Caldera' dei Campi Flegrei, qui… sulla 'Terrazza' di un 'mondo mitico', qui… dove ogni luogo evoca radici antiche, potrebbe essere diverso, e non lo è.

Monte di Procida, originariamente Mons Cumanus, rigogliosa e selvaggia collina a ridosso della città di Cuma fu un villaggio (demo) della antica polis.

Si dice che essa nacque nella notte dei tempi, millenni e millenni lontana, quando nel mare antistante la Costiera di Capri-Circeo, si scatenarono conflagrazioni subacquee e convulsioni telluriche, e si sollevarono gigantesche fontane d'acqua bollente, colonne immani di magma incandescente, e soffioni altissimi di vapori densi fuoriusciti con apocalittica violenza.

Di quei tempi remoti, ripetutisi in episodi limitati, ci sono arrivati gli echi nel mito della lotta dei Titani contro Giove, nell'area cumana, di Tifeo imprigionato sotto il turbolento Epomeo e di Mimante, dormiente sotto l'isola di Procida.

Ed è questo ciò che vedo affacciandomi da Bellavista, ecco lì Misenum, il compagno di Enea per alcuni autori, il compagno di Ulisse per altri,

comunque, 'chiesto in sacrificio' da Poseidone per il 'percorso nell'Ade dell'eroe'.

Da località 'Cercone' la spiaggia Romana e l'insediamento della città Cumana con in fondo verso Nord, ma proprio in fondo, le propaggini del Lago di Licola nella Piana della Campania; a Sud-ovest ecco qui il Grande Tifeo e, disteso ai suoi piedi Mimante. Tutto questo io, posso quasi toccarlo e con il cuore sentire di avere radici antiche;

Monte di Procida! …'è una tronca piramide che splende ammantata di viti e di leggende'…(P.F.Scalise) …

Le mie radici, tanto antiche che il dolore del presente è uno schianto, per come Monte di Procida è diventata adesso, oggi, nell'anno duemilauno.

Le 'Caldere' si sa, sono il risultato di un fenomeno geo-fisico. Si formano per effetto di 'grandi esplosioni vulcaniche' determinate da terremoti di grande portata. Quasi sempre si formano in 'luoghi' che sono già vulcaniche, ed i Campi Flegrei non per altro sono un insieme di vulcani a cielo aperto.

Poseidone, il dio del mare, riconosciuto già nelle culture antiche, l'artefice di fenomeni specificatamente plutoniani: è per Omero e per i Greci il Dio che scuote il suolo e fa tremare la terra. Nel XX canto dell'Iliade, quando gli dei si apprestano a prendere parte alla battaglia, Zeus fa sentire il suo tuono nell'alto del cielo: "Quanto a Poseidone, egli scuote la terra immensa e le alte vette delle montagne; e tremano le radici dell'Ida dalle numerose sorgenti, così come la città dei Troiani e le navi dei Greci".

E' a Poseidone – dirà – Decharme – che i greci attribuivano i terremoti, credenza che si spiega in questo paese in cui tali fenomeni si verificano soprattutto nelle isole dell'arcipelago, accompagnati dall'eruzione di vulcani sottomarini. Questi flagelli terribili erano considerati come gli effetti della collera di Dio, che si cercava di placare con sacrifici e preghiere speciali.

Le 'caldere' hanno questo nome, solo perché nell'esplosione una parte viene tirata giù nelle viscere del mare, e così il 'gigantesco vulcano' perde, una parte di sé, una 'metà', lasciando il posto ad insenature ed isole. Mi ricordano le onde 'Tsunami' e l'esplosione di Santorini nel lontanissimo 1500 a.c. e di recente l'esplosione del Krakatau (nell'oceano indiano) nel 1887.

Fu così per le Cicladi e le Sporadi, per Caria e Cos, per Thera e per i Campi Flegrei che generò Scheria.

Dall'alto di Miseno riesco a vederla a trecento sessanta gradi la 'caldera' dei Campi Flegrei, con i suoi due immensi seni (l'una che da punta Posillipo giunge a Pozzuoli, l'altra che si ferma a Punta Epitaffio, poi, Baja fino al Promontorio di Miseno guardando verso est, ed il lembo della spiaggia di Miliscola con il lago Maremorto, infine, il Monte di Procida, con il punto più alto a circa 140 m di quota in quel di Monte Grillo, guardando verso ovest. All'orizzonte, ad Est il Vesuvio e la penisola Sorrentina e con l'isola di Capri, scoglio che come una 'sfinge' sorride sorniona in lontananza; e ad ovest Ischia e Procida in tutta la loro antica selvaggia natura; seguo con lo sguardo il percorso ellittico del sole che all'alba sorge sul Vesuvio e al tramonto è verso ed oltre Ischia.

Sole e lava un tempo, questa terra, con i 'centri magnetici' verso est e verso nord, dove vennero costruiti i templi di Venere e di Apollo dai Greci e dai Romani, tra Cuma e Baja, dove ancora puoi sentire se ascolti bene, 'la voce profetica' della Sibilla, e ammirare qualche 'darsena' degli antichi porti militari, tra l'Averno e tutto il promontorio di Miseno.

Sullo sfondo è Cuma, l'ammiri ancora con stupore misto a un senso di venerazione, sapendo che lì in quella rocca si aprì il libro della storia dell'Italia. Cuma o Iperea come fu chiamata dai Feaci: 'l'alta', la terra dei Ciclopi, giganti 'dall'occhio rotondo'.

Alcune fonti asseriscono che, Cuma fu fondata l'VII sec. A.c. da Calcidesi e Cumani, guidati dagli ecisti Ippocle di Cuma e Megastene di Calcide, l'uno diede il nome della sua città, l'altro le leggi; altre, che essa fu precedentemente abitata dai Feaci, l'anziano Nausitoo il primo re dei Feaci viene indicato nell'Odissea come colui che regnava su di essa in relazione con i Giganti, prima di lasciarla per Scheria, 'la nera' : Ischia.

"I Feaci abitavano Cuma, all'inizio della vasta piana della Campania, a quattro leghe nell'ovest del luogo dove in seguito sorgerà Napoli. Là essi erano molto vicini ai campi Flegrei; e nelle regioni interne verso sud-est avevano come vicini gli Enotri padroni di tutta l'Italia meridionale" (Od., VII, 59).

Cuma donò all'Italia e ai popoli d'Occidente il prodigio dell'alfabeto calcido-cumano (divenuto poi latino) ed infine un'organizzazione marittima che fu il nerbo della sua potenza. Secondo Dionigi di Alicarnasso, nel VI secolo a.C. , "Cuma era celebre in Italia per la ricchezza, per la forza e per ogni altro bene e disponeva dei porti più attrezzati intorno a Miseno".

Certamente Acquamorta (loc marittima situata sulla costa ovest di Monte di Procida) costituiva uno di questi porti, da cui si mosse l'armata navale cumano-siracusana, agli ordini di Gerone II, per sbaragliare la poderosa flotta punico-etrusca nella famosa battaglia sul mare (474 a.c.), cantata da Pindaro.

Nel 64 d.c. sulle spiagge del Monte, naufragò la flotta imperiale, fatta salpare da Formia, su suo ordine, nonostante la tempesta in corso. Scrisse Tacito: "…mentre tentarono di aggirare il promontorio di Miseno, i nocchieri furono respinti e sbattuti sulle spiagge cumane dalla violenza dello scirocco (africo) e perdettero la maggior parte delle tiremi e i navigli più piccoli si sparsero qua e là".

Dalle indicazioni topografiche offerte da Tacito non è difficile localizzare la catastrofe tra le spiagge di Fumo, Acquamorta e Procida.

Più tardi, il Monte fu compreso anche nella colonia di Miseno con l'imperatore Claudio, fu chiamato Mons Misenus mentre Capo Miseno Promontorium Miseni :

…'mica sarebbe una scoperta, perché di esso forma il masso principale nel promontorio naturale, il quale abbraccia tutta la piccola penisola rinchiusa tra il seno bajano e la palude Acherusia (Fusaro) anche essa mare. Il promontorio di Miseno termina a tre punte: dei Penati (Pennata) a levante, di Fumo a ponente, e di Miseno proprio a austro. Siccome questa punta è la più inoltrata, ritiene più particolarmente il nome principale. E' perciò più che naturale che gli antichi abbiano compreso sotto il nome di promontorio di Miseno anche il Monte di Procida attuale, come sotto la denominazione di promontorio Gargano è sempre stato compreso tutto quel gruppo di monti, che si sporgono in Adriatico. Dai Romani il Monte fu destinato a sito di ville patrizie, rustiche e residenziali pei familiari dei militari della flotta misenese. (Abate Galanti).

Soltanto centodieci anni fa scrive M. Parascandola che… "sulla piana della contrada Croce, a destra salendo dalla Chiesa e per l'estensione di un moggio, costeggiato dalle proprietà Schiano Lomoriello, Uccio, Fabrizio e Manzi, si vedono ruderi di grandi muri di fabbrica antica con forma bislunga di palmi 30 circa con intonaco antico, con un tratto di pavimento a mosaico e un condotto d'acqua e gl'indizi di un pozzo…" (da M. Parascandola Cenni storici…).

I coloni assicuravano che trattavasi di grandi conserve d'acqua, le cisterne, poiché diverse bocche e spiragli esistevano.

Le piscine sul Monte di Procida erano frequentissime, me le ricordo ancora tra i cellai di fine settecento e le case coloniche con i tetti a volta, a tutto sesto, solo trentatrè anni fa: avevo sei anni!

Ogni casa colonica una piscina con il secchio e la carrucola, ogni cellaio una piscina con secchio e carrucola; e le vasche, grandi vasche per lavare il bucato o la canapa, il lino, e altre fibre che venivano poi filate dalle nostre nonne con uno strumento che si chiamava 'Fuso e Conocchia'.

Ogni stradina all'incrocio aveva una fontanella in bronzo scuro, proprio come quelle di Roma, una piccola colonna di bronzo con capitello a forma di Leone che dalla bocca sgorgava acqua.

Una Fontanella all'incrocio tra via Le Croci e via P. di Piemonte, una fontanella tra via Allegra e Corso Garibaldi, una fontanella in p.ta S. Antonio, una fontanella in piazza XVII gennaio.

Alcune stradine: quelle laterali alle provinciali, erano tutte in basolato con pietre vulcaniche o sanpietrini, proprio come le antiche strade romane, poi i sentieri o le 'mulattiere?' consentivano di attraversare i vigneti rigogliosi, che a me bimba di sei anni sembravano boschi, per arrivare a casa della nonna, un complesso 'rustico' munito persino di 'parracine'.

Non sempre si è riusciti a conoscere dimensioni ed epoca dei ruderi, cisterne e reperti segnalati durante il disboscamento, la colonizzazione del sei settecento e la costruzione dei fabbricati dell'otto-novecento.

Non è solo la tradizione orale (il toponimo Case Vecchie si spiega con la preesistenza di ruderi romani), ma anche episodi rilevanti di ritrovamenti archeologici ci portano a concludere che il Monte è legittimo partecipe della storia antica dei Campi Flegrei. Persino di strutture sottomarine si è parlato intorno a San Martino e nei fondali della Baia dei Porci si narra siano stati 'pescati' reperti preziosi di bronzo, ceramica e marmo.

Qualcuno più adulto di me per età, mi racconta perché la località Cercone si chiama cosi. La parola è un neologismo derivata dal 'vernacolo' che significa 'Grande quercia'. Sembra che proprio lì all'incrocio tra via Torregaveta, via P.di Piemonte e corso Garibaldi vivesse felicemente questa grande e immensa quercia, la quercia con il diametro più grande di tutte le altre querce esistenti nel Paese.

"Nella cava e nella pozzolana a destra salendo dalla Marina a Torre Fumo o Vite e precisamente nel fondo di Michele e Crescenzo Coppola, alla profondità di metri 4 si sono trovati diversi sepolcri, due interi e due disfatti con scheletri ed ossa umane chiusi con grossi mattoni con l'incisione della fabbrica, con diverse ampolline di vetro in forma di astuccio, detti degli antichi lagrimatorii (da M. Parascandola Cenni storici…)

Ma… proviamo a vedere cosa c'è nella loc. che viene definita la Vite, oggi…

Mi sono ritrovata a percorrere le strade del paese e, cercare nei palazzi qualcosa che in un passato recente mi è appartenuto, un timpano neoclassico di un balcone, l'orecchio barocco' di un portone, un capitello corinzio all'ingresso di una casa, l'arco a tutto sesto di un portone ottocentesco, la soglia di basalto, la pietra dei casolari che ricordano il tufo cumano, le grotte di opossum laterizio che conducevano al mare dalla loc. stufe di Nerone, giù fino a punta Epitaffio, per finire a Torregaveta. Qualcosa sì, che mi è appartenuto, sin da che sono nata, nel recente novecento e forse, in altre vite , per altri mari ed altre caldere.

Ma… la loc. stufe di Nerone non ha più le discese in laterizio romano alle spiaggette, sono chiuse, dichiarate 'pericolose' da tanto tempo. Sulla strada provinciale antistante la montagna di tufo e pozzolana, oggi è 'ponteggiata' già da un bel po' di anni, dopo che nel 1985 ci fu la famosa frana di Punta Epitaffio che isolò tutto e tutti.

Ora il costone litoraneo che dalle stufe di Nerone giunge a Punta Epitaffio è un bellissimo muro: un muro di tufo cementificato, non so come, ma è un muro, nessuna pianta, nessun albero, nessuna macchia mediterranea!

'Non puoi pretendere di trovare le cose sempre al loro posto' – mi disse un giorno mio padre a una mia ennesima lamentela sulla 'cementificazione selvaggia' del territorio, ad un mio rientro da Milano.

Mi era sembrato di capire da alcuni studi del Presidente dell'Osservatorio Vesuviano Michele Luongo e dell'Urbanista Pier Luigi Cevellati che non fosse la 'siringa di cemento' o 'l'impasto cementificato del tufo' il rimedio alle 'frane' sul territorio, ma… forse si sbagliavano?!

Campi flegrei, detti ardenti, non hanno più niente di originariamente 'ardente', le sorgenti d'acqua calda sono ormai 'chiuse' tra mura privatizzate, per cui, l'originaria caratteristica del territorio dov'è?

Tuttavia esso, per la sua natura geo-fisica è bradisismico, il che significa una 'soglia di rischio' da scegliere, per la popolazione, l'effetto del 'peso edilizio' eccessivo è anche 'crollo'.

Ma… densità di popolazione alta?

Oppure … tutti con 'grande senso della proprietà privata', così ancorati ad un originario individualismo borghese che farebbe inorridire lo stesso Macpherson. L'assenza di un piano regolatore generale e di piani di fabbricazione, producono ancora oggi, il proliferare di 'un'illegalità edilizia' diffusa, immemore tra l'altro degli stili architettonici mediterranei, quello rurale, e quello antropologico dei 'luoghi'.

Qui, gli studi di Le Corbusieur su Modernismo e modernità non so se trovano un loro senso, oppure un effettivo 'non sense', perché dei legami antropologici tra Nord e Sud, tra il grande Shinkel e le cupole dolci delle 'chiese greche', i patii a volta, le linee armoniose dell'architettura procidana, le classiche geometrie dei colombari romani e… le case rurali che ci portavano a Cartagine, nulla più è rimasto.

Per cui… gli stupendi lavori dell'arch. Benedetto Gravagnuolo (Università di Napoli) su 'Mediterraneo:abitare l'arcipelago', restano 'lavori di studio', bellissimi da guardare in presentazione ad Ischia, isola in parte 'salvata' da una 'edilizia selvaggia'.

Monte di Procida costituisce l'emblema dell'esasperato individualismo borghese, proprietà private sempre più grandi in "stile" architettonico anni sessanta e settanta, sono state costruite distruggendo tutti e tutto, scatenando una lotta 'all'ultimo sangue' tra i cittadini, che dimenticando di essere fratelli, fratelli di sangue e di terra, 'coloni' che giunsero nel XVII sec. dall'isola di Procida, cui il territorio del Monte era stato aggregato dalla giurisdizione religiosa, vennero qui per 'lavorarvi la terra'.

Così 'limiti alle vedute' violate impunemente, normative sui confini e le distanze tra le abitazioni disattese, muri divisori o comuni altissimi e, ciò che più deprime, muri… alti muri: tutti costruiti con cemento, strade sterrate trasformate in viottoli bituminati.

Nessun muretto in pietra di tufo, nessuna fontanella di bronzo scuro con i leoncelli romani, nessuna grande quercia o albero secolare agli incroci e nelle piazze, la 'grande quercia' del Cercone è stata sostituita da un 'obelisco?' in 'materiale da me non meglio identificato' a metà tra l'acciaio e la plastica.

Le stradine con i sanpietrini o il basolato con pietre vulcaniche, hanno lasciato il posto alle strade iper-bituminate, infinitamente rattoppate, le opere di sistemazione degli scoli delle acque sono inesistenti. Non esiste più uno spazio verde non recintato.

Dove sono finiti i Pini marittimi che abitavano Pza XXVII Gennaio e le Palme? E il viale alberato di Corso Garibaldi e Corso Umberto I, come lo volle Mussolini?!

La costa che congiunge loc. Acquamorta con Torregaveta, passando per la baia dei Porci, la Colombaia e Punta Papò sta crollando, ogni anno ne crolla un pezzetto. Quest'anno alla fine di ottobre è crollata la Colombaia! Il duemila si è chiuso con il crollo della costa situata in loc. Colombaia, creando disagio ad otto famiglie, che abitando sulla 'cima' della medesima

Che hanno visto emanare un'ordinanza di inagibilità dal Sindaco uscente, perché gli edifici 'rischiavano' di precipitare nel mare.

La Colombaia, situata tra loc. Torregaveta e l'Isolotto di S. Martino era nell'ottocento, l'antica 'polis' – del Monte. Sulla sua cima vi era il primo 'Paesello' dove i cittadini 'allevavano' per diletto e per amore i colombi che si andavano poi a posare lungo la costa, tra gli stupendi scogli, che il mare e il vento con la loro forza hanno trasformato in splendide 'architetture organiche'.

Mi racconta Gioacchino, l'amico etico che mi accompagna via mare, che questo luogo in Febbraio porta le voci dolci e tremende del mare, proprio come il canto delle sirene per le orecchie di Odisseo, perché le innumerevoli grotticelle e anfratti in questo periodo dell'anno, consentono alla marea di poter lanciare il proprio 'sospiro' oltre le naturali mura della collina.

Puoi sentirle dal mare a venti trenta metri di distanza, le voci, rilassandoti ed ascoltando il tuo respiro; le voci del mare, le conoscono bene i pescatori che all'alba ancora cercano di pescare al largo, con amo e lenza o reti e canaste.

'Pronto, sono Assunta, ascolta ho da dirti qualcosa di importante…' 'Assunta, ascolta, io non vengo stasera alla riunione, Assunta ascolta, c'è stata una frana … Assunta, mi ascolti…..? 'Si, ma devo parlarti seriamente, è necessario svolgere degli adempimenti…per… 'Assunta, mi ascolti, c'è stata una frana…… io non so se ci sarò stasera avverti gli altri!

La realtà dei coloni fu in espansione tra il 1810 e 1820. Tra gli atti del periodo affiorano i nomi di queste località, che costituiranno poi l'innervatura urbanistica del Monte: Sopra la Chiesa, Torreone, Sopra le case, Pedecone, Sopra le case vecchie, San Martino, Sopra del Fumo Nuovo, Vicaria, Dietro al pozzo, Petrara, Pozzillo, Cercone, Alle Coste, Cappella, Acquamorta ossia Pietra della Marchesa, Cupillo, Sopra la Gaveta (o la Gaveda), Inferno, Montegrillo, Miliscola, Basso la vite, Corsara, Cavone della vita, Mercato di sabato, Falda del Monte, Zicardo, Marina, Curato.

Monte di Procida nel 1892 "ha 25 strade, cioè due provinciali, 14 comunali e nove vicinali che formano una rete stradale dalla lunghezza di chilometri 13,785, di cui chilometro 1 e 538 m. è basolato con pietre vulcaniche. I suoi abitanti con l'ultimo censimento del 1881, compresa cappella, erano 3665. In tale epoca vi erano 172 case agglomerate ed abitate, vuote 28, sparse abitate 341, sparse vuote 107, totale abitate 513, vuote 135. Famiglie agglomerate in ciascuna frazione 318, sparse nella campagna 462, totale 780.

Prima vi erano varie torri nei vari punti sporgenti sul mare, come quella che io ricordo fuori il Cimitero e distrutta appunto nella sua costruzione per servirsi di quei materiali ed ecco perché questo sito si dice Torrione, come pure quella di Torre Gaveta la quale, fu innalzata su antichi ruderi. La denominazione di Case Vecchie è derivata dal perché in quel sito vi erano ruderi ed avanzi di case antiche e di qualche Torre, ed i diversi smalti antichi che si sono trovati, lo dimostrano. Oggi però il numero delle case è cresciuto, giacchè di anno in anno sorgono nuovi fabbricati. Come pure la popolazione è in aumento. Varie sono le ragioni del rapido sviluppo che da pochi anni a questa parte ha ricevuto il Monte di Procida. Per me credo che sia dovuto primariamente all'opera delle bonifiche, per la quale le acque stagnanti che vi erano alle falde del monte dalla parte di Torre Gaveta sono state prosciugate e per le banchine fatte al Fusaro e Maremorto, giacchè tutto ciò ha scongiurato il pericolo che prima vi era di contrarre la febbre palustre. Inoltre la Crittogama alle viti, per la quale i terreni trovavasi fittati con estagli mitissimi, il prezzo favoloso dei suoi vini rinomati da per tutto, il taglio della pozzolana sceltissima per fabbricare e finalmente la via Provinciale che dalla Chiesa scende al piano, la ferrovia Cumana da Torregaveta a monte santo di Napoli, tutte queste cose e le altre che si faranno, cioè il nuovo tronco di via provinciale dalla Chiesa all'Acqua morta, la stazione a Miliscola della Ferrovia Economica (Cumana), come si dice, fanno presagire alla Borgata di Monte di Procida uno sviluppo maggiore ed un lieto avvenire ai suoi abitanti". (Michele Parascandolo Cenni storici intorno alla città ed isola di Procida, ed. tipografico Letterario).

Assunta Patrizia Esposito (2001)

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LA VERA STORIA DI VERA JARACH





VITA ESEMPLARE DI UN'EDUCATRICE ALLA NON VIOLENZA






- Mi chiamo Vera Jarach e il mio nome lo dice, sono di origine ebrea . Mio nonno era ebreo. Abitavamo in Italia, a Venezia, fino all'avvento della seconda guerra mondiale, poi…



Quando nel 1939 Mussolini emanò le leggi razziali che escludevano gli ebrei da tutti gli ambiti professionali, culturali e sociali dello Stato Italiano, mio padre decise che quello era il momento di andar via, di lasciare questo paese che non ci riconosceva. Mio nonno che era molto più ottimista di mio padre disse che non c'era nulla da preoccuparsi e decise che lui invece in Italia ci sarebbe rimasto. Non volle lasciare questa terra a cui sentiva di appartenere, nonostante la sua diversità etnica e culturale. Ci imbarcammo su una nave a Genova, direzione Argentina, nuova terra, nuovi orizzonti, nuove speranze. Mentre la nave salpava carica di emigranti, mio padre preoccupato salutava il suo amato padre con il cuore gonfio di sofferenza e di preoccupazione. Chissà quando l'avrebbe rivisto!



Parla con voce bassa e un po' rauca Vera Jarach , si scusa con tutti, studenti e docenti: "Sono giorni che parlo, è normale che la voce mi abbandoni, ma quello che ho da raccontarvi è importante perché ciò che è accaduto una volta potrebbe accadere ancora" – Poi, sfodera un sorriso angelico, dolce e avvolgente e dimentichi che è un'anziana signora di ottant'anni, la vedi nella sua essenza interiore una 'bambina' che nonostante tutto ha ancora voglia di vivere, credere e sperare nei valori veri della vita. – Mio nonno non lo rivedemmo mai più. – Nel 1943 fu deportato nel campo di concentramento di Austwitzch dove morì come tanti altri ebrei, lasciandoci nel cuore l'ulteriore vuoto di non riavere la sua salma a cui dare degna sepoltura. Non so se avete chiaro a cosa serva il rituale della sepoltura. Esiste da millenni, si perde nella memoria dell'umanità e serve a ridare alla famiglia della salma la capacità di elaborare il lutto, di ricomporre nella propria anima , tassello per tassello la propria memoria interiore, una cosa importantissima per l'identità di una persona ma…noi non riavemmo mai il corpo di mio nonno". - In Argentina ricostruimmo la nostra vita familiare e sociale e la vita sembrava scorrere tranquilla nonostante tutto. Fu nel 1976 che la situazione precipitò quando i Generali dei corpi armati dello Stato Videla, Massera e Agosti (tutti italiani) definirono la loro dittatura militare che durò dal 1976 al 1983, ' Processo di Riorganizzazione Nazionale'. Bisognava riorganizzare tutto l'ordinamento sociale, politico e culturale dello Stato per legittimare nuove regole e un nuovo ordine, che poi è vecchio quando il mondo, quello della sopraffazione dell'uomo sull'uomo, eliminando tutti coloro che credevano nella libertà e nella dignità umana. Libertà e dignità possono sembrare solo due parole, tra l'altro colme di equivoci in questa società dei consumi, ma se ci pensate la loro essenza indica il rispetto per se stessi e per l'altro. Un rispetto che passa attraverso tutto, la comunicazione, le relazioni, i gruppi sociali spontanei, le Istituzioni cioè la famiglia, la scuola, la società, l'economia e infine lo Stato. Dal 24 marzo 1976 l'Argentina decise di eliminare tutti coloro che avrebbero ostacolato anche solo con la loro presenza questo piano. Fu chiamato il Piano Condor. "…prima elimineremo i militanti, poi elimineremo i collaboratori, poi i simpatizzanti ed infine i timidi…" questi furono gli ordini dei tre generali. Il tutto però sotto silenzio. Il resto del mondo non avrebbe dovuto sapere, non ci sarebbe dovuta essere tanta pubblicità come era accaduto in Cile nel 1973. Tali erano gli orientamenti della comunità internazionale. I militanti erano tutti coloro che promuovevano i diritti umani e sociali, fossero di sinistra o cattolici aveva poca importanza – ciò che era importante era che essi esprimevano la loro opinione o il proprio sostegno a favore della dignità umana che prima ancora di essere un concetto etico-morale è un concetto religioso. "L'uomo possiede una dignità per il solo fatto di essere una creazione di Dio" – almeno questo è ciò che dice la Bibbia e i Vangeli e anche i testi sacri delle altre religioni. Fu così che silenziosamente sparirono 30.000 persone, un'intera generazione, quella degli anni '50 tra studenti, insegnanti, psicologi e psicoterapeuti, avvocati, assistenti sociali e operai impegnati nel sindacato. E' questo è ciò che oggi viene chiamato fenomeno dei desaparecidos. Sparivano, improvvisamente le persone sparivano, e non rientravano più alle loro case. Anche mia figlia sparì un giorno. Mia figlia aveva 18 anni, era una bellissima ragazza che sorrideva sempre perché amava la vita, militava nel movimento studentesco per una scuola più giusta , come tanti allora, e voleva diventare un'insegnante perché aveva capito che è dall'educazione che si forma la civiltà. Mia figlia sparì e incominciò il mio incubo. Cominciai a cercarla dappertutto, rivolgendomi a chiunque, amici, parenti, poi funzionari degli uffici, fino ad arrivare alle cariche più alte dello Stato, ma le risposte erano vaghe, mi rispondevano "…cosa vuole signora sarà andata via con il fidanzatino per qualche tempo…" e tante altre cose banali e superficiali che mi facevano percepire il muro, il muro del silenzio. Un silenzio che si ripiegava in se stesso ed entrava nella mia anima aprendo un abisso profondo, un abisso da cui percepivo che mia figlia non esisteva più, e da cui avrebbe voluto uscire un urlo, l'urlo del dolore e della disperazione di non ritrovare più mia figlia, viva o morta, di non riavere la sua salma per darvi degna sepoltura. Un urlo che però non riuscì ad uscire mai dalla mia bocca tanto enorme era l'abisso della mia anima che il respiro vi rimaneva intrappolato, strozzato in tutto quello sgomento. Tre anni dopo, quando tra la gente cominciò a divulgarsi una minima conoscenza di quei crimini e misfatti, l'allora nunzio apostolico del Papa Mon. Pio Laghi ad una convocazione di noi Madres de plaza de Mayo ci disse: ' Certo, signore se le loro figlie sono via da tre anni, saranno state torturate molto e certamente non verranno rilasciate più".



Sorride ancora Vera Jarach mentre racconta il suo dolore e non si capisce da dove giunga quel suo sorriso angelico, nonostante l'orrore, racconta dei metodi di tortura, dell'addestramento dei carnefici cominciato qualche anno prima, delle esecuzioni dei voli della morte e di altro ancora…'



- Mi chiamo Vera Jarach, sono una delle Madri fundadore delle Madres di Plaza del Mayo, il movimento di protesta contro la dittatura Argentina. Il 24 Maggio festeggiamo la ricorrenza del nostro primo giorno di protesta, il giorno in cui noi Madres cominciammo a girare in fila indiana lungo il perimetro della piazza con le foto dei nostri figli al collo, perché solo questo ci era consentito fare. In silenzio, come tutto era stato consumato nel silenzio. Raccontiamo la nostra storia per non dimenticare, per lasciarvi una memoria storica, tra di noi ci furono molti italiani, e soprattutto per dirvi che: "…a nessuno di noi venne mai in mente di imbracciare un' arma e cominciare un'altra guerra contro la 'guerra sporca'…perché la guerra non si può combattere con altra guerra…se ci si vuole porre fine." Questo solo voglio dirvi: "…ciò che è accaduto una volta potrebbe accadere ancora…è per questo che dobbiamo restare vigili tutti e lavorare quotidianamente per abbattere il muro dell'indifferenza, il primo mattone della nostra anima che ci impedisce di costruire una società più giusta e soprattutto più sana…"






NOTA



Ho conosciuto Vera Jarach e la sua amica Angela Boitano alla Biblioteca civica di Pozzuoli per la presentazione del Laboratorio di Storia diffuso – Ismli – Landis e Aicew su Percorsi di Storia e memoria tra Italia e Argentina.



Non credo che le dimenticherò tanto facilmente, se è vero che il nostro percorso di vita quando è profondo è costellato di presenze significative, Vera e Angela resteranno sempre nel mio cuore, anche se non dovessi incontrarle mai più.



Assunta Patrizia Esposito













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Lettera agli Insegnanti italiani

di James Hillman


 

I

I miei pensieri oggi si reggono su una distinzione fondamentale che specificherò in questa frase iniziale: l'insegnare e l'imparare non devono essere confusi con l'educazione e possono persino essere impediti dall'educazione. Inoltre, se questa distinzione è fondamentale, allora sarà precedente ai progetti per la riforma dell'educazione, alla certificazione degli insegnanti, alle missioni e e agli scopi dei programmi educativi, ai contenuti dei curricula, e ad altri dibattiti che impegnano cittadini ed esperti.

La distinzione può essere posta in termini semplici e pratici. Qualcosa quasi naturalmente vuole imparare, specialmente nell'infanzia. Come usare una sega, cucinare un uovo strapazzato, ricordare i versi di una canzone? Dove va il sole quando scende "giù"? e dove sono i pettirossi d'inverno, e perché le anatre non annegano come i polli.? Qualcosa dentro di noi vuole sapere dove, come, quando, che cosa. Porre domande è innato alla psiche umana. Un bambino fa domande agli insegnanti, ai genitori, agli amici, persino ai libri, per soddisfare la sete di apprendere, anche fino al punto di un comportamento ossessivo, ritualistico, dove "perché ?" si ammucchia su "perché?" su "perché ?".

Possiamo imparare ponendo delle domande, ma impariamo ancora di più osservando, ascoltando, imitando, sperimentando e assorbendo sensualmente il mondo che ci circonda. Il bambino, come facciamo noi stessi, tiene un occhio all'esterno e un cuore aperto per il dove e il che cosa e specialmente il chi può soddisfare questo desiderio d'imparare.

In corrispondenza con questo desiderio d'imparare c'è un impulso a insegnare, egualmente innato. Qualcosa, di nuovo piuttosto naturalmente, vuole rispondere a una domanda, dimostrare, spiegare, correggere. " Su dammi quello; lascia che ti mostri come si fa." "Non tenere la sega così stretta. Lascia che siano i denti a fare il lavoro." " La pioggia? Ebbene, noi facciamo la pioggia nella nostra stanza da bagno: guarda come il vapore del bagno fa delle piccole goccioline sulla superficie fredda dello specchio."

La relazione fra l'imparare e l'insegnare è animale, naturale, data, dotata di ubiquità; non è tanto il prodotto della civilizzazione e della cultura quanto la loro base. La cultura chiama questa relazione tradizione; la civilizzazione, educazione. Comunque diamo forma a questa relazione, l'insegnante e l'allievo, la guida e l'apprendista, l'esperienza e l'innocenza, il sapere e l'ignoranza, il pieno e il vuoto sono costituenti costanti della vita interiore dell'anima. In quanto tali, appartengono non solo ai primi anni o alle prime fasi dell'indagine. La ricerca di un insegnante, di un insegnamento e il desiderio d'insegnare continuano in modo importante nella tarda vita . Uno dei momenti più miserevoli della tarda vita è quello in cui l'impulso ad insegnare viene frustrato: nessuno vuole ciò che si può insegnare.

Fra questi due impulsi e la loro affinità l'uno per l'altro viene l'Educazione. Immaginate l'Insegnare e l'Imparare come un fratello e una sorella, un poco perduti nel bosco, come Hansel e Gretel nella fiaba, catturati dalla strega, l'Educazione, e sempre sul punto di essere divorati dall'insaziabile appetito di quella strega. L'intervento dell'Educazione sembra piuttosto ragionevole: mira a facilitare la serendipità (1) della relazione rimuovendo la casualità e controllando il contingente. Soprattutto l'educazione esteriorizza e sistematizza la relazione nella "scuola" (istituzioni educative). Tenta di mettere in contatto i giusti (qualificati) insegnanti con i giusti (selezionati) allievi. Così l'insegnare e l'imparare divengono personificati in classi di persone: quelli che possono e quelli che non possono; quelli che sanno e quelli che non sanno. La vocazione innata diventa una professione accreditata. Il potere inevitabilmente fa seguito alla divisione in classi, che minaccia l'insegnare e l'imparare con la paura dell'"altro". Gli insegnanti temono i loro studenti; gli studenti i loro insegnanti, minacciando l'educazione stessa e conducendola a definire il suo ruolo non tanto come uno strumento di agevolazione, ma come un'autorità impositiva. In questo modo l'educazione separa l'insegnare e l'imparare. Pure la storia dell'autodidatta mostra che i due elementi potenziali nella natura umana sono funzioni complementari. Quanto ciascuno di noi ha imparato e ancora impara insegnando a se stesso da solo!

L'educazione richiede un intero esercito di amministratori, esperti, specialisti; divisioni in classi, unità, soggetti, discipline, dipartimenti; conseguimento di traguardi, gradi, prove, valutazioni; e naturalmente bilanci preventivi, supervisione, responsabilità misurabile. Pure l'educazione si suddivide in due specie: primaria e superiore, tecnica e classica, scienze ed arti; riparatrice ed avanzata. Il misterioso lavoro emotivo di insegnare e imparare viene cooptato nelle forme esteriori che mirano a farlo avvenire. In verità, l'insegnare e l'imparare scompaiono in vicoli laterali e in occasioni segrete. Dei lunghi anni trascorsi nella scuola quanti pochi episodi di illuminazione conservati nella memoria, quanti pochi momenti di insegnamento che hanno acceso un fuoco! Anche per gli insegnanti solo una manciata di studenti da tante classi realmente "connesse" restano ben presenti nella memoria.

Potrebbe sembrare che la distinzione che sto tracciando segua un vecchio spartiacque fra ciò che William James - che fu lui stesso molto interessato all'insegnamento (Conversazioni con gli insegnanti, 1899) - chiama le menti "dure" e quelle "tenere". Questa divisione domina la teoria pedagogica come l'opposizione tra disciplina e libertà, tra il classico e il romantico, fra le nozioni del bambino come selvaggio e il vuoto bisognoso del battesimo e la disciplina o il bisogno innato assennato e creativo di opportunità ed espressione. Potrebbe sembrare che la mia enfasi sul desiderio istintivo di imparare e insegnare segua un lato di questo spartiacque, cioè il Romanticismo di Rousseau, Pestalozzi, Frobel, Montessori e Alice Miller, i quali tutti sottolineano l'elemento idiosincratico piuttosto che quello nomotetico, privilegiando l'individuale sulle necessità collettive della società.

Ma questa non è la mia intenzione. Io sfuggirei da questo spartiacque del tutto, perché la coppia insegnare-imparare, nonostante preceda l'educazione non può subire un'interpretazione letterale in un programma d'educazione. Io cerco di fuggire dalle ideologie che annunciano, o denunciano, programmi in ciascuna direzione: da una parte, modelli più duri di contatto intensificato fra insegnanti e studenti, o, dall'altra, una tenera educazione in classi collaborative e l'istruzione scolastica a casa. Se io optassi per un progetto diventerei un educatore, mentre sono solo uno psicologo. Cerco di descrivere ciò che giace nell'anima dell'educazione piuttosto che prescriverne la forma. Voglio solo che l'affinità innata fra l'insegnare e l'imparare, e l'idea di ciò come di un fatto primordiale, restino vive nell'anima.

L'educazione oggi assorbe il cinque per cento del prodotto mondiale nazionale lordo; l'educazione è la più grande industria del mondo. Enormi difficoltà stanno schiacciando le scuole nel mondo - l'enumerazione delle quali sta quasi schiacciando anche questa conferenza. Sebbene queste difficoltà appaiano nella psiche turbata di insegnanti e allievi, esse non sono radicate nell'insegnare e nell'imparare. Infatti l'immediatezza di quel rapporto è un porto sicuro, una salvezza dai problemi dell'educazione. Per la gioventù ci sono pochi rifugi, poche fughe dai problemi dell'educazione contro i quali c'è tanta ribellione, sia diretta - come il rifiuto della scuola, la violenza e i desaparecidos o scomparsi - sia indiretta, nei sintomi psicologici che ostacolano l'imparare, ad esempio "i disturbi dell'imparare". Gli insegnanti, presi fra le richieste dell'educazione da una parte e la ribellione degli studenti dall'altra, sono in una posizione simile a quella di un medico verso il paziente, di un avvocato verso il cliente, di un giornalista verso la fonte, del prete verso il peccatore.

Sono obbligati dalla loro fedeltà alla loro coppia a stare con i loro studenti i cui sintomi rappresentano una resistenza a quel disordine generale dell'imparare chiamato "educazione".

Immaginate! La psiche si ribella contro il vero imparare che una società guidata dall'economia insiste nel ritenere di primaria importanza. Devi ricevere un'educazione, avere un'educazione, perché allora sarai più vendibile, servendo l'economia e alzando il Pil. Ecco perché gli insegnanti sono risorse nazionali, fornire le loro prestazioni soddisfa le quote di produzione stabilite per loro! L'educazione come merce, come un investimento di capitale che serve alla competizione del libero mercato. E' questo ciò a cui i sintomi dicono "no" ? E' questo ciò che il rifiuto della scuola in definitiva significa?

Qualcosa si sta ammalando nel cuore dell'educazione; è malata nel cuore, e questo cuore non può essere ristabilito con semplici esercizi di base o con una nuova dieta dell'anima, né questo cuore può essere sostituito da una macchina ad alta tecnologia.


 

II

Possiamo osservare il cuore dell'insegnare in azione in tre esempi tratti dalle biografie di scrittori distinti. James Baldwin il romanziere e saggista americano, ricorda: " un edificio scolastico… terribile, antico; scuro, cupo e a volte pauroso. In una classe di cinquanta bambini, per lo più neri, un'insegnante Orilla Miller - una giovane insegnante di scuola bianca, una donna bellissima… che amavo… in modo assoluto, dell'amore di un bambino", riconobbe una qualità in questo bambino nero di dieci anni. "La giovane donna del Midwest era sorpresa dalla vivezza d'ingegno di questo bambino dei bassifondi". Scoprirono un interesse comune in Dickens; lo leggevano entrambi ed erano ansiosi di scambiare opinioni. Anni più tardi, dopo essere diventato famoso, Baldwin scrisse alla sua vecchia insegnante, chiedendo una fotografia. "Ho tenuto il tuo volto nella mia mente per molti anni".

Un altro resoconto; questo di Elias Kazan, lo straordinario regista cinematografico: "Quando avevo dodici anni ebbi un colpo di fortuna, l'incontro con la mia insegnante dell'ottavo grado, Miss Shank influenzò il corso della mia vita… Mi prese in simpatia… fu lei a dirmi che avevo dei begli occhi marroni. Venticinque anni più tardi, mi scrisse una lettera. 'Quando avevi solo dodici anni' scrisse 'la luce cadeva dalla finestra attraverso la tua testa e la tua fisionomia e illuminava l'espressione del tuo volto. Pensai alle grandi possibilità che erano nel tuo sviluppo e …'. Miss Shank si avviò sollecitamente a sottrarmi alla tradizione della nostra gente riguardo al figlio maggiore e a indirizzarmi verso… le discipline classiche".

Un terzo esmpio è quello di Truman Capote, un tipico "bambino difficile", che faceva tutto quello che poteva per disturbare la classe e provocare i suoi insegnanti. Ma incontrò la simpatia della sua insegnante di scuola media, Miss Wood. Condividevano un interesse per Ibsen. Miss Wood invitò spesso il giovane Capote a cena, lo favoriva in classe e incoraggiava i suoi colleghi a fare altrettanto.

"Mi prese in simpatia" ha detto Kazan; " Ho tenuto il tuo volto nella mia mente per molti anni", ha detto Baldwin; Miss Wood invitava Capote a casa per mangiare insieme e gli forniva ciò che desiderava in classe. Miss Shank "mi disse che avevo dei begli occhi marroni", ha detto Kazan. Queste schizzi ci dicono che c'è un modo di valutare indipendente dagli esami. L'insegnare vede con l'occhio del cuore. Noi non crediamo più in questa specie di visione: "…la luce cadeva dalla finestra attraverso la tua fisionomia e illuminava l'espressione del tuo volto". Ma al giorno d'oggi, forse specialmente negli Stati Uniti, vediamo solo con l'occhio dei genitali. L'attrazione che ha appassionato questi allievi e questi maestri oggi sarebbe seduzione, manipolazione, persino abuso. Agli insegnanti è consentito di essere chiamati dalla bellezza; l'educazione permette che l'eros si risvegli?

Ma se dovesse risvegliarsi, allora l'eros non corromperebbe l'obiettività e l'eguaglianza?

Può darsi che proprio qui risieda la ragione più profonda dei computers all'interno dell'aula: essi sono completamente imparziali. Non c'è eros nel programma.

Niente eros neppure nell'accademia - una mancanza comune in istituzioni di istruzione superiore. I professori non ascoltano le lezioni degli altri, leggono i saggi degli altri. Borsisti e ricercatori non amano l'amministrazione; gli amministratori non amano i professori. Il personale è "di una classe più bassa", persino al di sotto degli studenti. Gli studenti mettono in contatto i loro cuori affamati con la loro sete di conoscenza che sarà mandata via dalle vane preoccupazioni della facoltà, loro stesse in cerca di amore. La trappola sessuale diviene l'unico accesso all'eros nell'università.

Gli esempi di Baldwin, Capote e Kazan rivelano qualcosa di particolare riguardo all'eros dell'insegnare. Ciò che fece riunire le coppie, la reciproca attrazione, fu una visione comune. L'amore fiorì perché condividevano una fantasia. Per Baldwin e Miss Miller, Dickens; per Capote e Miss Wood, Ibsen e Undset; per Kazan, la visione di un futuro umanista. Essi percepirono la bellezza l'uno nell'altra e permisero la vicinanza. (Capote veniva a casa per cena; Miss Shank studiava il volto e gli occhi di Kazan; Miss Miller dava a Baldwin il suo tempo privato). Quando l'eros è represso cade in un'intimità clandestina. Pure impariamo attraverso la vicinanza - osservando le mani del maestro al lavoro, ascoltando le inflessioni vocali, contagiati dalla gioia del compito. Uno degli studenti di Socrate dice (Teagete 127 Bff): " Ho fatto progressi ogni volta che ero insieme a te… e sono progredito più rapidamente e profondamente quando mi sono seduto vicino, accanto a te e ti ho toccato". Mentre per l'educazione nello stesso passaggio (128B) Socrate dice: " Non so niente di questo raffinato sapere dei Sofisti; io ho soltanto un piccolo corpo di sapere: la natura dell'amore (tà erotika)".

E' importante mantenere distinte nella mente le molte specie di eros. I filosofi della Chiesa potrebbero elencare una quarantina di specie di relazioni amorose, come i soldati in armi, i compagni in un viaggio, le suore in un ordine, il servo e il padrone, fratelli e sorelle, e naturalmente madri e figli, mariti e mogli. Ciò che in particolare il mentore divide con il suo o la sua protetta è un amore nato da una fantasia comune. La loro dedizione non è tanto per ciascuno come amanti quanto - in questi casi di scrittori - per la lingua inglese. I loro demoni sono in armonia, ciascuno aiuta l'altro a soddisfarsi. Insegnare e imparare sono necessari l'uno all'altro e, come Hansel e Gretel si salvano l'uno con l'altro. Così l'insegnante non è un genitore sostitutivo che procura allo studente i soldi per il pranzo e scarpe nuove. Miss Miller e Miss Wood e Miss Shank nutrivano le anime degli studenti e mettevano il fuoco nei loro spiriti.


 

III

Prima di concludere questo discorso rivolto agli insegnanti mi piacerebbe rendere più chiaro un pensiero. Nonostante il titolo di questo Convegno, la base dell'insegnamento nel Ventunesimo secolo non è diversa da quella di qualunque altro, anche se il contenuto e la forma dell'educazione subiscono le esigenze della storia. Il fatto che l'educazione presti il suo corpo alla piazza del mercato nella nostra epoca, non è diverso dalla sua prostituzione alla dottrina politica nell'era di Stalin e Hitler, o Mao e Pol Pot, o alla Chiesa nella Francia della Scolastica, o all'ortodossia musulmana nelle scuole del Medio Oriente. All'insegnamento si chiede sempre di sottomettersi senza protestare di fronte ai dogmi educativi: lo testimoniano il destino di Socrate, la persecuzione degli insegnanti irlandesi nelle scuole di trincea durante la dominazione inglese. A causa del potere degli istituti educativi, il vero imparare, analogamente alla psicanalisi, diventa sovversivo. L'imparare deve nascondersi all'interno dell'educazione come abbiamo visto nei tre piccoli bambini e nei loro insegnanti, dove una corrente erotica lega in modo sovversivo l'insegnante e lo studente. Marsilio Ficino, uno dei più autorevoli insegnanti d'Europa di sempre, si riferì a questo imparare nascosto e sovversivo come contro-educazione. Noi impariamo ciò che è ufficialmente insegnato, e re-impariamo il contrario o ciò che sta più profondamente nel suo interno, vedendo in esso e attraverso esso, decostruendo, diciamo, con il chiedere ulteriormente: "questo materiale, questo metodo, questa ipotesi che cosa significano per l'anima?". La contro-educazione interiorizza e individualizza, come ha detto Ficino, le uniformità dell'educazione. Individualizzare l'educazione, cioè collocare l'imparare all'interno dell'anima di qualcuno, esige l'eros, non perché l'individualizzare favorisce uno studente a scapito di un altro, il cosiddetto "prediletto dell'insegnante", ma perché l'eros incendia il particolare stile di desiderio di ogni persona.

Con "uniformità" mi riferisco a modelli di prove, misure di intelligenza, gradazioni attraverso livelli, libri di testo uniformi, divisioni del tempo, architettura delle aule scolastiche, ecc. L'idea autentica dell'uniformità educativa, dell'universalità stessa, è stata radicalmente sfidata teoricamente da Howard Gardiner, a Harvard, e molto tempo fa da Giambattista Vico a Napoli. Per Vico i veri universali dai quali potevano essere derivati i modelli sono i miti classici, che ha chiamato universali fantastici, cioè i tipi archetipici che governano l'immaginazione e dai quali dipende lo stesso pensiero. Questi universali mostrano come la natura umana immagina i suoi problemi, viene a contatto con essi, ed effettua scelte di valore. Essi offrono un modo di pensiero umanista o quella che può anche essere chiamata una base poetica della mente che è capace di superare il nichilismo etico dell'educazione contemporanea e l'ottusità estetica travestiti e rinforzati dal "metodo obiettivo".

Così, seguendo Vico, la base archetipica della mente è un substrato sia di logica che di sogno, di scienza e di arte, di passato e di presente, di obiettività e di soggettività. Mentre Vico propone le molteplici persone e storie e valori dei miti nella loro immensa differenziazione, Gardiner mina l'uniformità dimostrando che l'imparare dev'essere molteplice perché l'intelligenza è molteplice. L'imparare e l'insegnare devono seguire una varietà di pensieri. Una dimensione non va bene a tutto. Anche la nozione di "misura" può essere liberata dalla sua angusta denotazione - significati matematici e statistici - per modi che tengono chi e perché e che cosa è stato misurato; per esempio, l'estetica, la narrativa, la morale o le capacità del corpo.

Ma ora sto andando oltre il mio semplice tema e sto trasgredendo nel campo delle idee educative, idee per rifondare l'educazione lungo linee che derivano da Vico e Gardiner, il che implica che il primo compito dell'educazione sarebbe di psicoanalizzare se stessa, di decostruirsi trovando i miti che suggeriscono i suoi programmi. Pure, qualunque cosa venga proposta da chiunque, dovunque, la techne e la praxis di tutti i programmi educativi, la realtà di ogni adempimento dipende dall'affinità naturale fra la coppia archetipica: l'Insegnante e lo Studente.


 

Nota

Dall'inglese serendipity. Lo scoprire qualcosa di inatteso e importante che non ha nulla a che fare con quanto ci si proponeva di trovare o con i presupposti teorici sui quali ci si basava. Il significato del termine trae origine dalla fiaba persiana I tre principi di Serendip, nella quale gli eroi protagonisti posseggono appunto il dono naturale di trovare cose di valore non cercate.


 

James Hillman


 

Per leggere le risposte degli insegnanti:

http://www.edscuola.it/archivio/ped/hillman.htm

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